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jeudi 19 mai 2022

RINNOVARE IL PALAZZO DELLA RAGIONE

 

Padova


  (Ce texte d'Ange Scalpel est paru en 2012 en version Giulio Petri prononcée à l'Université de Pavie en 2010, et a été traduit par Davide Fassio)

 

RINNOVARE IL PALAZZO DELLA RAGIONE

 

 

1.     La fuga dalla ragione

 

           In molte grandi città d’Italia c’è un Palazzo della ragione, un edificio pubblico dedicato alla vita comunitaria e all’amministrazione della giustizia. Che una città decida di porre questo sacro nome sulla facciata del suo principale edificio civico è sempre stato una fonte di stupore ammirativa per quei filosofi che stimano la Ragione. Ma ora siamo lontani dall’epoca medievale in cui la maggior parte di questi palazzi fu edificata. Dopo aver dato il suo nome all’età dell’illuminismo, la Ragione è caduta in discredito. Possiamo noi restaurare il suo perduto splendore?

        Ciò sembra senza speranza. Il ventesimo secolo è stata l’epoca del declino della ragione. La filosofia in Europa è stata dominata fin dagli anni venti da un filosofo tedesco che ha proclamato che l’essenza della ragione è Gestell, e che non ha trovato alcuna contraddizione nell’essere al contempo un filosofo e un membro del partito Nazista. Dopo la seconda guerra mondiale l’esistenzialismo ha affermato che la libertà non è altro che una scelta irrazionale che crea i propri valori. Horkheimer e Adorno hanno proclamato l’ “eclisse della ragione” e hanno lanciato il tema della responsabilità del razionalismo nell’ascesa del totalitarismo. Prima degli anni quaranta, la difesa degli ideali della ragione era prerogativa dei pensatori di sinistra o liberali – come Julien Benda, Benedetto Croce, Bertrand Russell, José Ortega y Gasset o Thomas Mann – mentre l’irrazionalismo era il marchio della destra politica. Dopo la seconda guerra si è verificato uno spettacolare capovolgimento: l’attacco della ragione è divenuto il motto della sinistra, e quelli che l’hanno difesa sono stati sospettati di essere liberali conservatori. Niente mostra meglio questo fatto del Nietzschianesimo, che è stato prima considerato come elitista e antidemocratico, ma più tardi è divenuto la bibbia del pensiero di sinistra nelle mani dei pensatori radicali degli anni settanta come Michel Foucault, Gilles Deleuze e Jacques Derrida. L’ Esistenzialismo, l’ Heideggerianismo, il post-modernismo, il post-strutturalismo, il neo-pragmatismo e il pensiero debole, hanno proclamato la vacuità  dei valori della ragione e denunciato la cosiddetta tirannia del Logos. Sembra che le guerre della scienza siano state vinte da quei sociologi della conoscenza che hanno contribuito al trionfo del relativismo e sostenuto che i valori “Mertoniani” della scienza (comunalismo, universalismo, disinteresse e scetticismo organizzato) siano mere finzioni che mascherano interessi industriali e il desiderio del potere. D’altra parte l’anti-ragione non è un tema meramente filosofico. Essa è un leitmotiv del Zeitgeist. dai surrealisti ai post-modernisti, i freddi ideali della ragione sono stati considerati come i nemici della creazione artistica.

       Ci sono almeno tre conseguenze maggiormente evidenti di questa fuga dalla ragione in filosofia e nella cultura in generale. La prima è stata ben descritta da C.P. Snow in Le due Culture: dagli anni trenta in poi il pubblico intellettuale ha smesso di essere un difensore della verità e dell’oggettività, e il divario tra letteratura scientifica e letteraria è aumentato drammaticamente. Al tempo dell’affare Dreyfus in Francia gli intellettuali potevano parlare in nome della scienza e di valori universali contro gli uomini di lettere che difendevano valori nazionali. Dagli anni trenta in poi, matematici e scienziati sono stati esclusi dalla sfera pubblica, e il nome di “intellettuale” è stato riservato unicamente a persone nella sfera letteraria. La filosofia, spesso associata alla scienza almeno fino al positivismo logico degli anni trenta, dopo la seconda guerra mondiale è stata invece essenzialmente associata alle scienze umane. L’idea che un fisico o un matematico possano parlare di valori pubblici è divenuta sempre più aliena alla nostra cultura[1].

       La seconda conseguenza, che è un corollario della prima, è che la filosofia ha smesso di aspirare ad essere una disciplina teoretica, ed ha cominciato ad essere confinata a questioni etiche e politiche. Si è sempre supposto che i filosofi fossero amanti della saggezza, ma l’idea che la saggezza potesse provenire dall’acquisizione di conoscenza teoretica o dal possesso di certe verità riguardanti il mondo è divenuta sempre più sospetta. Si è letta la stessa filosofia antica come essenzialmente promuovente una saggezza pratica, e lo storico Pierre Hadot ha convinto molti che il fine dell’antica filosofia greca non fosse mai stato teoretico. I Neo-Kantiani da Fichte a Habermas hanno sostenuto che se ci può essere ragione in filosofia essa deve essere pratica e confinata al dominio dell’etica. La stessa idea che la filosofia possa produrre qualche tipo di conoscenza, o anche solo contribuire al progresso conoscitivo, è divenuta completamente obsoleta.

       La terza conseguenza, forse la più visibile, è che la filosofia è divenuta un soggetto popolare. Nonostante alcuni filosofi come Bergson o Russell abbiano conquistato gloria letteraria durante la prima metà del ventesimo secolo, la filosofia era ancora rimasta prevalentemente una disciplina academica. Sartre in Francia aprì la via a carriere filosofiche condotte completamente al di fuori dell’università. I pensatori radicali degli anni settanta – Foucault, Deleuze, Derrida, presto seguiti da Rorty negli Stati Uniti,  Negri , Vattimo e Agamben in Italia, Sloterdijk e Zizeck  in Germania– hanno tutti interrotto i loro iniziali legami con la filosofia accademica. Molti dei loro successori sono diventati giornalisti o autori di best-sellers. Oggi la filosofia è ovunque nei media, nei programmi radiofonici e televisivi, su internet e nelle riviste. Essa non propone più un messaggio di rivolta contro poteri politici e di cambiamento del mondo. Sovente i filosofi pubblici contemporanei non aspirano a niente di più che produrre un tipo di sociologia del presente unita ad una versione soft dell’etica delle virtù. Il filosofo come consulente morale e come terapista è la controparte del filosofo come giornalista. Molti filosofi hanno adottato i valori del giornalismo: scrivere veloce, solo su questioni contemporanee, prendere seriamente un opinione solo se è considerata molto importante e diffusa, abbandonarla se la gente si stanca di essa, non perché ingiustificata, e evitare ogni apparenza di apprendimento e erudizione e in generale alcunché possa far supporre una qualche forma di studio da parte del lettore.

       Anche se ai suoi tempi non poteva contemplare lo tsunami della cultura pop sulla filosofia, Franz Brentano ha descritto accuratamente quattro principali fasi della filosofia: creativa e teoretica, orientata alla produzione di conoscenza scientifica con Platone e Aristotele, poi etica, orientata a interessi pratici e alla ricerca della felicità con la filosofia Ellenistica, poi scettica con Hume e l’Aufklärung, e infine mistico-dogmatica con Kant e i suoi successori. Forse Brentano avrebbe descritto la nostra presente fase del dominio dell’opinione sulla filosofia come un ritorno al relativismo Pitagorico.

       Nel contesto odierno, il tentativo di rianimare la ragione e ritornare, come suggerito da Brentano, alla prima fase scientifica, sembra essere vano come il tentativo di riproporre la teologia Tridentina. Julien Benda, uno dei pochissimi intellettuali ad aver lucidamente contemplato al suo tempo il naufragio degli ideali della ragione e denunciato il “tradimento dei chierici” che sacrificarono il culto delle pure idee all’impegno politico, difese “la rigidità della ragione[2]. Ma, ci si potrebbe chiedere, che senso avrebbe tornare indietro ad un ideale che sembra essere definitivamente tramontato ? Certo se ci troviamo nella morsa di un senso Hegeliano della necessità storica nel dominio delle idee, ciò non ha senso. Ma il razionalismo non riconosce la necessità all’interno della storia. La ragione appartiene al dominio degli ideali, che sono indipendenti dalle contingenze della storia e che si possono sempre opporre ad essa. In questo senso il razionalismo non è un ideale di ieri, ma per ogni tempo.

 

 

2. Può la filosofia analitica incarnare i valori della ragione? 

 

      Alcune delle opposizioni emerse nella filosofia contemporanea durante l’ultimo secolo si potrebbero descrivere come il prodotto di un altro fenomeno delle “due culture”: la distinzione “analitico/ continentale” in filosofia. È stato detto che il famoso congresso di Davos nel 1929 sia stata la pietra miliare della separazione dei due mondi filosofici. Cassirer, il principale rappresentante del Kantismo razionalista, perse la battaglia contro la gloria ascendente di Heidegger, mentre Carnap, il terzo partito, percorse la sua via contro gli altri due[3]. Per molti versi la filosofia analitica ha ricevuto l’eredità della filosofia scientifica, mentre la  filosofia continentale ha ricevuto l’eredità dell’antirazionalismo post-Heideggeriano. Positivismo contro ermeneutica, argomentazione contro stile letterario, logica contro intuizione, preoccupazioni teoretiche contro preoccupazione per “la vita”, cenacoli accademici contro cultura pubblica, tutto sembra costitutivo della separazione. La filosofia analitica durante il ventesimo secolo ha tenuto viva la fiamma della ragione?

     Certo, l’ha fatto. Ma non è chiaro che essa abbia tenuto viva la fiamma in tutte le sue incarnazioni. La filosofia analitica è stata, per la maggior parte della sua storia durante il ventesimo secolo, la rappresentativa dei metodi tradizionali e della ragione: i filosofi analitici hanno coltivato la scrittura chiara e argomentata, l’uso della logica e dei metodi formali, e in generale sostenuto gli ideali dell’illuminismo e della filosofia scientifica. Ma se si considerano le (specifiche) dottrine, è meno ovvio che la filosofia analitica possa esser descritta come razionalistica. Molta della prima filosofia analitica durante il secolo precedente è stata critica delle tesi del razionalismo classico. Molta dell’originaria filosofia analitica (Russell, Moore) è una rivolta contro i razionalismi di Descartes (Cartesio), Leibniz, Spinoza, Kant e Hegel. Molta della filosofia analitica di metà secolo, con i positivisti logici, è legata ad una forma di empirismo che rifiuta ogni conoscenza a priori che non è puramente semantica. Più tardi W.V.O. Quine ha rifiutato la divisione tra verità vera in virtù del significato e verità in virtù di  com’è il mondo. Se interpretiamo il razionalismo come la prospettiva secondo la quale si può conoscere la realtà, molta della filosofia analitica è scettica riguardo alla possibilità di tale conoscenza. Molti autori all’interno della filosofia analitica, inclusi Carnap, Wittgenstein e Strawson, sono post-Kantiani, e dubitano che la ragione possa raggiungere  la natura delle cose. La tarda filosofia di Wittgenstein è meglio interpretata come una forma di anti-realismo che evita questioni metafisiche, e molto del positivismo logico è neutralista e deflazionista rispetto a problemi come la natura della verità, gli universali e l’ontologia in generale. Nonostante la recente rinascita dell’ontologia a partire da Saul Kripke e David Lewis, molti filosofi analitici simpatizzano con l’idea di Wittgenstein che i problemi e le tesi filosofiche si basino su illusioni della comprensione. Molti epistemologi analitici hanno rinunciato ad ogni tentativo di teorizzare/produrre/fornire una fondazione della conoscenza e rispondere alla sfida dello scettico e sostengono prospettive “contestualiste” della conoscenza secondo le quali la conoscenza viene e va dipendentemente dalle varie circostanze della sua attribuzione o valutazione. Alcuni di questi filosofi hanno persino riconsiderato prospettive “relativiste” secondo le quali ci può essere “disaccordo senza errore” in molte aree del discorso. Inoltre gran parte della filosofia analitica contemporanea è sospettosa delle prospettive razionaliste classiche. In filosofia della scienza, l’”empirismo costruttivista” di Bas Van Fraassen afferma che non possiamo mai dire che le nostre teorie scientifiche sono vere ma possiamo solo accettarle come empiricamente adeguate. In etica, molti filosofi seguono l’ “astinenza epistemica” di Rawls riguardo alla verità in etica e accettano il motto di Putnam di un’ “etica senza ontologia” o l’ “etica senza principi” di Rorty. Attualmente molta della filosofia “post-analitica” contemporanea si è occupata di temi relativisti e scettici che rimandano al pensiero post-modernista. Quando Rorty difende l’ “edificazione” contro l’argomentazione, e quando Cavell ci ingiunge di rinunciare ad ogni tentativo fondazionale o esplicativo e di coltivare “l’ordinario”, non siamo molto lontani da Heidegger. Il relativismo e lo scetticismo non sono limitati ai confini della filosofia post-analitica. Il forte orientamento del naturalismo nella filosofia analitica contemporanea che è un erede dell’empirismo Quineano e dello sviluppo delle neuroscienze cognitive è anche molto sospettoso di idee fondazionali e della conoscenza a priori. Alcune delle sue tendenze più radicali invocano una dissoluzione della filosofia nella scienza empirica. Gli auto-proclamatisi “filosofi sperimentali” ci dicono che la maggior parte dei nostri concetti e intuizioni filosofiche sono vincolati da una cultura e non hanno validità universale, contrariamente a ciò che la tradizione razionalista in filosofia ha sempre presupposto. Non è quindi sorprendente che alcuni di essi trovino attrattive alcune idee Nietzscheane.

     La filosofia analitica è ora una villa troppo ampia con troppe stanze per essere ridotta ad una sola corrente . Ma è necessario ammettere che molte prospettive che sono state definite “analitiche” non sono particolarmente favorevoli al razionalismo. Quindi, alla domanda posta nel titolo di questa sezione io risponderei solo con un qualificato “si”.

 

3.           Il regno della ragione

 

     Ma quali sono esattamente i criteri del razionalismo? “Ragione” è una parola particolarmente ambigua. Il razionalismo in generale e in filosofia in particolare comporta vincoli sia sostantivi che critici, che enuncerò qui in qualche modo dogmaticamente. 

     Prima distinguiamo tra vincoli sostantivi o dottrinali del razionalismo da un lato e vincoli critici o metodologici dall’altro. Ci sono quattro vincoli sostantivi fondamentali del razionalismo: (i) metafisici: possiamo avere conoscenza di una realtà oggettiva indipendente dalla mente; (ii) epistemologici: almeno una parte della nostra conoscenza del mondo è a priori, nel senso che si basa su principi che sono indipendenti dall’esperienza; (iii)  unità: ci sono stabili leggi della ragione e del pensiero, che l’esperienza non può cambiare ; (iv)  normatività: ci sono norme e valori razionali, basati sulle leggi della ragione, che sono  a priori e che devono essere rispettate.

     Ci si potrebbe domandare se questi vincoli di fatto definiscano il razionalismo. Ora, alcuni filosofi, come Leibniz e Kant, sono razionalisti nel senso epistemologico (ii) ma non sono realisti metafisici nel senso (i); essi sono idealisti. Per converso si può essere realisti metafisici senza essere epistemologicamente razionalisti (un gran numero di naturalisti e empiristi sono realisti metafisici). In che misura, tuttavia, si può essere razionalisti epistemologici negando al tempo stesso il realismo metafisico? L’idealismo “assoluto” di Hegel, e alcune versioni di pragmatismo, considerano il mondo come razionale. Questi sistemi contano come razionalisti? In un senso si, dal momento che essi considerano la verità riducibile alla giustificazione, e il mondo come identico alla mente.  Tuttavia, ci si potrebbe domandare se un autentico razionalista possa accettare che la verità non può oltrepassare  la giustificazione. L’affermazione Hegeliana che la ragione può conoscere ogni cosa è effettivamente opposta al razionalismo genuino, che accetta che vi siano verità inconoscibili. Direi che lo stesso vale per neo-Hegeliani dei giorni nostri come Robert Brandom, o neo-Kantiani come Jürgen Habermas o Hilary Putnam per i quali la verità è giustificazione ideale razionale. Lasciatemi definire queste forme di razionalismo immodeste. Il razionalismo che si accompagna agli ideali della ricerca scientifica, tuttavia, è del tipo modesto: esso non pretende che la ragione non abbia limiti, e considera la conoscenza umana come limitata. In altre parole esso accetta una forma di realismo per il quale la verità può eccedere l’accettabilità razionale. Per neo-Kantiani la verità non puo estendersi oltre la giustificazione. In altre parole, il rationalismo implica il concetto realisto di verità[4]. Pertanto il realismo nel senso di (i) forma il nucleo dei vincoli del razionalismo. Il realismo puoi essere  limitato. Per essenpio e possibile d’essere piu o meno realisto dipende all tipo di discorso: il realismo matematico non implica necesarmente  il realismo morale. Ma senza l’idea d’una conoscenza oggetiva e d’una realta independente e non mentale il razionalismo non é veramente un razionalismo. Ciò non significa che tutti i razionalisti debbano seguire la stessa agenda. Un razionalista, per esempio, non deve necessariamente essere un realista riguardo agli universali o alle entità astratte. Egli può essere un nominalista riguardo agli universali. Inoltre, nonostante il razionalismo comporti l’accettazione di una distinzione tra conoscenza a priori e a posteriori, non tutti i razionalisti devono tracciare la distinzione allo stesso modo.

      Non è così chiaro che un razionalista debba accettare i quattro precedenti vincoli. Un autentico razionalismo, un razionalismo sanguigno o vigoroso, per cosi dire, comunque, deve accettarli tutti. Primo, gli ideali della ragione sarebbero vuoti se l’esercizio della ragione non potesse aiutarci a raggiungere un mondo oggettivo nel senso richiesto dal realismo. Secundo essi non avrebbero senso se non si accettasse che almeno certi principi sono  indipendenti dall’esperienza e non rivedibili. Tertio , questi ideali sarebbero privi di forza se le norme della ragione non possedessero un grado significativo di unità e stabilità. Quarto ed essi sarebbero impotenti se non avessero forza normativa e capacità di guidarci nelle nostre ricerche. D’altra parte gli scetticismi e relativismi di tutti i tipi rifiutano i quattro vincoli e considerano il mondo come inconoscibile. L’empirismo e il naturalismo riduttivo rifiutano il secondo, il terzo e il quarto vincolo. Moltissimi pragmatisti – eccetto Peirce, che era un realista pragmatista – rifiutano i quattro vincoli.

     Il razionalismo comporta anche principi  critici e metodologici , maximio regole per la direzionedell’ intelligenza, che seguono naturalmente da quelli sostantivi. Un razionalista sostiene che le norme della ragione sono costitutive del nostro pensiero, ma ciò non significa che non dobbiamo fare nulla per mettere questi ideali in pratica. Valutare la ragione è rispettare i suoi principi. Ed essere guidati da essi. Rispetto per le leggi della logica implica credere nell’unità della logica e nella forza delle sue leggi. Il principio di contraddizione è scritto sulla facciata del Tempio della Ragione. Alcuni logici, tuttavia, rifiutano la logica classica. Sono essi espulsi dal Sacro Tempio della Ragione? Non necessariamente, dal momento che tutti i logici accettano che ci siano principi minimali di inferenza. Comunque affermerei che un autentico razionalismo non è compatibile con una forma estrema di pluralismo logico, secondo il quale ci sarebbero molti sistemi logici alternativi. Il principio di tolleranza di Carnap, che dice che in logica non ci sono morali, e che ciascuno è libero di scegliere un sistema secondo i propri bisogni, è più consono ad un tipo di pragmatismo che al razionalismo. Il razionalismo può accettare l’idea che non c’è un unico insieme di principi logici universali, ma non può accettare che la logica sia solo uno strumento o un organon. Essa deve essere un canone. Certamente la riverenza per la logica non è esclusiva del razionalismo, ma il disprezzo per la logica e coltura del ragionamento impostore e fallace è chiaramente il più sicuro senso di irrazionalismo e misologia. 

     Una delle più importanti interpretazioni del quarto vincolo del razionalismo – l’esistenza di valori razionali – ha una controparte critica, che è che ci sono norme della ragione. Le norme più astratte e generali sono quelle della conoscenza e della ricerca, in particolare la norma della verità – si deve ricercare la verità, e evitare l’errore – e la norma dell’evidenza – si deve credere solo sulla base di evidenza sufficiente. Queste formano ciò che è spesso chiamata, nei termini usati da William Clifford, l’ “etica della credenza”. Esse sono le norme epistemiche che i pensatori dell’illuminismo fin da Locke e Voltaire hanno sempre difeso in nome della Ragione, specialmente contro forme di entusiasmo religioso e non. Esse sono il nucleo dell l‘Illuminismo insieme a quelle che Kant ha chiamato “le massime del senso comune” – pensare da sé, pensare al posto dell’altra persona, sempre pensare in modo coerente con se stessi. La massima di Clifford, benché sia un affermazione metodologica, è l’espressione di ciò che si avvicina ad essere un quinto principio sostantivo del razionalismo: (v) evidenzialismo: solo l’evidenza può giustificare una credenza. La norma evidenzialista si contrappone alla dottrina pragmatista, difesa da William James, secondo cui la credenza è una questione della volontà – che la credenza, il giudizio e la ragione in generale possono essere giustificate dalla sola azione. La dottrina volontarista riguardo alla credenza si rifà a Cartesio e alla sua concezione del giudizio come sotto il controllo della volontà. Cartesio  ha sostenuto che Dio crea le eterne verità della logica e della matematica dalla propria libera volontà. Di fatto Cartesio è ritenuto un razionalista kat’exochèn . Ma l’idea che Dio possa rendere vero, con la sua volontà, che due più due non fa quattro è davvero razionalista? Leibniz ha sostenuto contro la tesi di Cartesio , giustamente a mio avviso, che essa implica effettivamente l’introduzione di un elemento irrazionale all’interno della ragione. Le verità della Ragione non dipendono da alcuna volontà. In questo senso l’anti-volontarismo è un principio fondamentale del razionalismo: pensiero, ragione e verità non sono di nostra fattura.[5]

     Certamente il razionalismo non possiede il copyright di queste norme epistemiche – gli empiristi possono accettarle entrambe e i pragmatisti possono almeno accettare la norma della  verità sebbene essi rifiutino la norma dell’evidenza – ma i razionalisti si trovano in una posizione migliore di ogni altro filosofo per difendere il loro status normativo. Un filosofo che, come molti pragmatisti, dicesse che le regole della ricerca non sono immuni da revisione o sono mere massime strumentali, di fatto negherebbe la loro forza normativa. Peirce è un’eccezione. Egli ha sostenuto che “la prima regola della ragione” è “mai ostacolare la via della ricerca”, e differisce da moltissimi altri pragmatisti nel considerare tali principi come a priori e non rivedibili. Egli anche rifiuta la dottrina della volontà di credere di William James. 

     L’esatta natura delle norme della ragione e la misura in cui i principi della logica sono normativi è oggetto di disputa tra i razionalisti e i loro avversari, ma anche all’interno dell’ambito razionalista. Dovremmo ragionare secondo i principi della logica classica o secondo le leggi della probabilità? La ragione si esaurisce nel suo senso logico? C’è un dibattito, in particolare nella teoria dell’azione e della decisione, se i condizioni della razionalità siano sostantivi – riguardino le azioni in se stesse – o meramente “procedurali” – riguardino meramente la procedura per raggiungere una decisione. La forma precisa che i principi della ragione, sia sostantivi che critici, dovrebbero assumere è ancora un problema irrisolto.

     Ho formulato i vincoli del razionalismo nei termini di condizioni riguardanti la ragione teoretica, ma si può essere razionalisti anche nel dominio pratico. Tradizionalmente il razionalismo morale è la prospettiva secondo la quale requisiti e norme etiche non seguono da sentimenti e passioni, ma dalla sola ragione. Ancora una volta, non affermo che un razionalista genuino debba essere un razionalista in tutti gli ambiti, incluso quello etico. Ma almeno un vincolo mi sembra che sia fondamentale rispetto a tutti gli altri tipi di razionalismo: l’idea che la ragione teoretica venga prima, e che è meglio soddisfatta in associazione con il pensiero scientifico piuttosto che in opposizione ad esso. Un razionalista che si limitasse alla sfera morale e pratica, come Fichte o Habermas, sarebbe solo per metà nel regno della ragione.

 

 

4.           Come rinnovare il Palazzo della ragione

 

      Ho indicato la forma che, a mio avviso, il razionalismo possiede.  Ma la ragione é una bella addormentata  nel bosco della filosofia nell suo castello, forse per piu di cento anni. Dove il Principe chi porrei svegliare la Principessa Ragione? La storia e difficile a credere, perché le  Principesse  e il Principi sono per lo piu irrationalisti. Porrei la Principessa della Ragione svegliare e dire all Principe:  "Siete voi, o mio Principe?", ella gli disse. "Vi siete fatto molto aspettare!". Ma dove potremmo trovare quello Principe?

     Vorrei ora indicare quale forma esso dovrebbe assumere. Il rinnovamento di una posizione classica in filosofia non significa l’adozione delle stesse dottrine del passato. Proprio come Leibniz quando tentò di rinnovare le forme sostanziali della filosofia scolastica nel XVII (diciassettesimo) secolo non riformulò le dottrine aristoteliche in quanto tali ma cercò di adattarle alla fisica dei suoi tempi, il razionalismo dovrà reinventare le proprie categorie e le proprie tesi fondamentali.

     Un modo in cui esso dovrà essere reinventato riguarda la sua relazione con il naturalismo. Il razionalismo classico si è basato su una concezione della ragione come una facoltà naturale che distingue l’uomo da altre creature. Gran parte della difesa del razionalismo epistemologico contro l’empirismo si basa sulla dottrina delle idee innate. Nonostante Chomsky e Fodor abbiano tentato di riproporre questa dottrina nel contesto della scienza cognitiva contemporanea, il razionalismo non è necessariamente legato ad essa. Né è necessariamente opposto al naturalismo. Il fatto che gli esseri umani siano animali evoluti non costituisce un limite al fatto che parte della loro conoscenza sia non empirica. Pensare altrimenti sarebbe commettere una fallacia genetica: confondere le origini delle nostre idee con le condizioni della loro validità. Allo stesso modo benché molti razionalisti classici abbiano sostenuto che la conoscenza a priori si basi su una facoltà dell’intuizione o introspezione, il razionalismo non deve necessariamente fare appello ad una tale misteriosa facoltà. Il razionalismo contemporaneo è perfettamente libero di sostenere che la conoscenza a priori si basa sulla natura dei nostri concetti più fondamentali e sulle norme che sono da essi implicate. Quindi, mentre i concetti percettivi sono associati a certi tipi di garanzie che ci assicurano quando siamo autorizzati alla conoscenza percettiva, i concetti logici sono associati a certi tipi di garanzie inferenziali.[6]

      Il leitmotiv del razionalista è che la filosofia è il dominio di ragioni e di norme. Il razionalismo non asserisce solamente la loro realtà contro scettici e relativisti, ma anche la loro autonomia da fatti naturali contro i naturalisti riduzionisti. Larga parte dell’agenda per un futuro lavoro filosofico in questo ambito consiste nel porsi domande come le seguenti: gli enunciati normativi sono fattuali? Se si quale tipo di fatti? Sono le norme riducibili ai valori? A ideali di razionalità? O sono esse riducibili a ragioni, secondo ciò che è a volte chiamato il “buck passing” account dei valori[7]? Come possiamo conoscerli e come essi possono regolare i nostri pensieri e le nostre azioni? C’è una differenza fondamentale tra norme epistemiche e ragioni per pensare da un lato e norme pratiche e ragioni per agire dall’altro? O la loro struttura è essenzialmente la stessa? Molte di queste questioni, che sono di pertinenza della meta-etica e della meta-epistemologia, sono già centrali in lavori contemporanei[8]. In epistemologia c’è un contrasto tra prospettive “internaliste”, secondo le quali per sapere qualcosa si deve sapere di sapere e conoscere le proprie ragioni, e prospettive “esternaliste”, secondo le quali la conoscenza non richiede ragioni. In psicologia morale c’è un’opposizione tra teorie che sostengono che le nostre ragioni per agire devono motivarci, e teorie esternaliste che negano tale condizione. Gran parte del progetto razionalista consisterà in un’analisi della struttura dell’ambito normativo delle ragioni in entrambi i domini.

      Questo tipo di progetto si potrebbe definire critico, dal momento che esso consiste nel cercare di comprendere i limiti della cognizione e dell’azione nei suoi termini più generali. Esso ha un tono Kantiano, ma non è necessariamente legato ad alcun progetto di una filosofia trascendentale nel senso Kantiano. Molti tentativi sono stati fatti, fin dalla fine del diciannovesimo secolo, per riportare in vita l’approccio critico di Kant. Gran parte di questi tentativi ha fallito perché essi si sono basati su una concezione troppo ristretta dell’a priori o perché non sono stati capaci di tenere in considerazione la natura della conoscenza scientifica contemporanea. Ma vi sono altri modi di comprendere il progetto critico diversi da quello Kantiano. Io suggerisco di comprendere tale progetto come una ricerca dell’estensione e dei confini della normatività. La filosofia, comunque, non è meramente critica. Essa ha anche una parte positiva, che è speculativa[9], nel senso che essa deve investigare la natura della realtà come un tutto, e in questo senso essa deve essere metafisica, pace Kant. Ma anche qui c’è metafisica e metafisica. Certo, la metafisica è una disciplina a priori, che ha il compito di descrivere le caratteristiche più generali della realtà e costruire il più accurato sistema di categorie ontologiche, ma essa non può riuscire a fare ciò in completo isolamento rispetto alla scienza. A questo riguardo essa non può affermare di asserire la verità finale riguardo a ciò che c’è. Il razionalismo non deve essere modesto nelle sue affermazioni sostantive e critiche riguardo alla natura della conoscenza, ma deve essere modesto quando perviene all’effettiva conoscenza del mondo[10].

 

   

        5.  La ragione nel pubblico dominio 

          

       Il mio manifesto razionalista deve sembrare deludente se si crede che la filosofia debba prendere parte negli affari umani e politici e se ci si aspetta che essa sia depositaria di un messaggio per l’umanità o almeno per la vita pubblica. Io rifiuto l’assunzione che essa debba fare ciò. La filosofia è prima di tutto una disciplina teoretica, che non deve necessariamente avere alcuna conseguenza pratica. Questo implica, in primo luogo, che la filosofia può essere una impresa teoretica. Ciò non significa cha la filosofia debba essere integrata come una disciplina empirica nelle scienze naturali, cognitive o sociali. Razionalismo significa che non tutta la nostra conoscenza è empirica. Una larga parte dei compiti critici e speculativi della filosofia consiste nell’investigazione dell’ordine concettuale e normativo su cui la nostra conoscenza empirica si basa e provvede una spiegazione delle più fondamentali categorie della realtà. Nonostante ciò non possa esser realizzato senza scienza, non è in sé stesso uno sforzo scientifico. In secondo luogo, la filosofia dovrebbe essere una impresa teoretica, e non avere nulla a che fare in particolare con il miglioramento delle nostre vite individuali o collettive. In  altre parole, io condivido pienamente la diagnosi di Benda che il ruolo dei “chierici”, e dei filosofi in particolare, è quello di coltivare i valori intellettuali e non sacrificarli in nome di valori pratici e della politica. Ciò non significa che i filosofi non devono avere a che fare con la sfera pratica e quella pubblica. Al contrario, essi devono, in quanto è uno dei ruoli della filosofia quello di comprendere la natura dell’azione e della vita etica. Ma il loro ruolo non è quello di essere coinvolti nell’azione pubblica né di limitare sé stessi a proporre varie concezioni della saggezza pratica. Un filosofo che non prendesse parte alla vita pubblica non cesserebbe di essere un filosofo, ma un filosofo che non prendesse parte alla vita teoretica cesserebbe di essere tale.

      Sono consapevole che il tipo di concezione che ho qui presentato sarà considerata come totalmente noiosa e reazionaria. Gli ordinari principi della ragione – credi ciò di cui hai evidenza, segui la logica, non dire più di quello che puoi sapere, eccetera – sembrano banali e noiosi. Se essi sono costitutivi del nostro pensare e sono in ogni caso presenti, perché preoccuparci a prescriverli? Ciò suona pedante o moralistico. Comunque, a differenza dell’imperativo morale Kantiano, dove si può parlare di dovere fine a se stesso, non si può parlare di ragione o logica fine a se stessa. Solo paranoici o folli farebbero ciò. Si può solo parlare di ragione  o logica per un certo scopo, che è la verità[11]. In filosofia il fine è trovare verità metafisiche, concettuali e morali. Ma nessuno dice che si deve rispettare la logica e la ragione ovunque e in ogni circostanza, in particolare quando la verità non è di nostro interesse. Ma in filosofia la verità è il nostro oggetto di interesse. Non è il nostro oggetto di interesse solo in filosofia e nella scienza e nelle questioni intellettuali. Essa è anche il nostro interesse in questioni etiche, politiche, e possibilmente estetiche, e nella misura in cui ci sono verità in questi ambiti, il rispetto per la ragione e la logica è importante anche lì. La ragione è noiosa? Certo che si, se si adotta il credo di Nietzsche e Walt Whitman:

 

        Mi contraddico?

        Molto bene, allora io contraddico me stesso.

  (Io sono ampio. Contengo moltitudini)

 

Meglio essere ristretti, e contenere solo se stessi, dice il razionalista classico. Ma la noiosa ragione può essere anche divertente. La satira razionalistica, nelle mani di Swift, Voltaire, Kraus, Benda, Russell e Orwell e molti altri che scrivono in nome della Ragione, è difficilmente noiosa, sebbene sia vero che la ragione, essendo ovunque la stessa, ha sempre lo svantaggio di sembrare monotona e ripetitiva se confrontata con l’errore e il falso ragionamento che sono vari e molteplici. 

     Il razionalismo è reazionario? Certo, come suggerito in precedenza, il tentativo di restaurare, quattro secoli più tardi, il razionalismo classico al suo apice come si è sviluppato con Cartesio, Spinoza, Leibniz e Kant, sembrerebbe essere una prospettiva reazionaria. Ma lo è solo se si pensa che la filosofia deve sempre e ovunque, proporre qualcosa di radicalmente nuovo e necessariamente adattare tutte le sue tesi ai cambiamenti d’epoca e di cultura. Ma deve fare ciò? La ragione deve cambiare, adattarsi e essere “dinamica”? Filosofi come Eraclito, Hegel, Marx, Bergson e altri hanno fondato la loro intera carriera nel dominio delle idee sull’affermazione che il pensiero deve essere “dinamico” e la ragione “flessibile” ai cambiamenti. Ma la ragione non deve cambiare. Essa rimane sempre la stessa, almeno nei suoi principi fondamentali. Ne segue che il programma razionalista è lo stesso per oggi e domani come lo era per ieri. Il segno della reazione intellettuale non è il tentativo, sempre rinnovato, di mantenere saldi i principi della ragione e di comprendere come essi possono ancora valere nelle mutevoli circostanze. Il segno della reazione è cadere vittima della tirannia del presente, e supporre che le leggi della ragione cambieranno in futuro. Voltaire, Russell o Benda, che non erano certo reazionari politici, avrebbero lasciato il loro segno sulla storia della ragione e su efficaci interventi nella vita pubblica se avessero creduto che la difesa dei suoi principi fosse meramente un episodio passeggero? Quando la bella sveglia del suo profundo sonno, ella e sempre stessa.[12]

 



[1]  Si vedano le affermazioni di G.H. Hardy citate da C. P.Snow: “Have you noticed how the word “intellectual” is used nowdays? There seems to be a new definition which certainly does not include Rutherford, Eddington, Dirac nor me. It does seem rather odd” ( The two cultures (1959), Cambridge 1998,p.3)

       [2]  Su Benda, P. Engel, Les lois de l’esprit, Julien Benda ou la raison, Paris, Ithaque, 2012

[3] Michael Friedman, A Parting of the Ways, Carnap, Cassirer and Heidegger, La Salle, Open Court, 2000

[4] Per un argumento per la differenza tra la verità e la iustificazione, D. Marconi, Per la verita , Appendice, p. 161-164

[5]  Per un buon argomento secondo cui il pragmatismo, specialmente in Bergson, è essenzialmente anti-razionalista, si veda Susan Stebbing, Pragmatism and French voluntarism Cambridge University Press 1914,

[6]   C. Peacocke ha articolato questo tipo di programma razionalista in Concepts , MIT Press, 1992, Being Known, Oxford 1999, e The realm of reason, Oxford 2004..

[7] Si  veda Timothy Scanlon, What we Owe to Each Others, Cambridge Mass, Harvard University Press

[8]  See  J . Skorupski’s impressive work long these lines, The Domain of Reasons, Oxford University Press 2011, and D. Parfit’s On What Matters, Oxford University Press , 2011.

[9] “Critical and speculative philosophy”, in  Contemporary British Philosophy: Personal Statements (First Series), ed. J. H. Muirhead (London: G. Allen and Unwin, 1924): 77-100

[10]  Claudine Tiercelin, Le ciment des choses, petit traité de Métaphysique réaliste, Paris, Ithaque, 2011. 

[11] I. Johansson, “Respect for Logic”, Essays dedicated to Dag Westertahl for his 60th birthday, Dept. of Philosophy, Göteborg University Web Series, No. 35, pp. 127-134 , 2003.

[12] Garzie a Davide Fassio per la sua traduzione di questo testo.


mort de La Palice à Pavie 1525

jeudi 12 mai 2022

Stratagème à la Perec pour l'écriture inclusive

   

le roman dont se serait inspiré Perec

L'écriture inclusive nous pourrit l'existence. Si vous résistez, vous passez pour un infâme réactionnaire, opposé à la marche de la fémanité. Si vous l'acceptez, vous rendez vos communications illisibles. Comment adopter un compromis et avoir un minimum de tranquillité, même s'il faut bien admettre que la tranquillité grammaticale c'est de respecter les lois de la grammaire d'une langue, qui sont supérieures à celles de son  lexique ? Ou bien faut-il, comme les latins (qui n' étaient pas spécialement féministes ) pour les arbres, tout mettre au féminin? Un premier pas consiste, comme me l'a suggéré une amie, à utiliser des abréviations comme celles qu'on a souvent dans les fins des correspondances par mail :

"amts" pour "amitiés"

"bat" et "bav" pour "bien à toi" et "bien à vous"

Mais cela ne résout pas le problème. La solution, me semble-t-il, est de doubler du stratagème de Georges Perec dans son fameux La disparition: supprimer la lettre "e", responsable de bien des maux. Mais cela ne suffit pas non plus, car le féminin ne se marque pas qu'avec des "e". Il faut donc recourir à un moyen plus radical: supprimer les voyelles.Voici quelques exemples sur des cas fréquents:

chères et chers collègues / chrs cllgs 

chers ami(e)s / chrs ms 

toutes et tous / tttts 

mesdames et messieurs / msdsmssrs  ou plus simplement : msd

professeur(e)  / prfssr 

directeur/ trice / drctr 

 auteur/trice / tr 

lecteur/trice  / lctr 

docteur/oresse / dctr 

doctorant (e), post-doctorant (e)/ dctrt , pst-dctrt

écrivain (e) / crvn 

président(e) / prsdnt  

ministre / mnstr  

plombier / plmbr 

On me dira peut-être que c'est un peu radical: autr, doctr , lectr, ecrivan seraient suffisants. C'est un peu embêtant aussi pour les glaces plombières. Mais si l'on veut être fidèle à Perec, il faut y aller carrément.

on évite aussi le notoire "iel" /  l , et au pluriel : ls

un/une / n 

le/la   l 

chacun/e     chcn

etc.

Comme on aura noté, le "et" n'est plus nécessaire, puisqu'une seule forme suffit pour désigner les deux genres, et surtout les .(es) et autres ajouts perdent leur raison d'être. C'est très commode, une fois répandu, car cela évite aussi d'user de trop de signes, en une époque de tweets et où la lecture sur internet ne dépasse pas vingt lignes .

Mais comme on voit il faut généraliser : les termes désignant le féminin doivent aussi subir le même régime :

femme / fmm 

dame / dm 

repasseuse / rpsss 

ravaudeuse / rvds 

procureuse/ prcrs   , qui bien plus commode qu'un terme légèrement connoté. 

la colonelle  l clnll

mais si l'on veut être vraiment épicène, c'est à dire unisexe, les termes masculins ne doivent pas faire exception :

homme / hmm 

mâle / ml

gros macho / grs mch  

la colonnelle ne se distinguer de son mari que par un l : l clnll / l clnl

et cela s'applique aux prénoms :

Martin . ine / mrtn

Jean/Jeanne  Jnn

Isabeau / Isb  (et tant qu'à faire appliquons le à la particule: de Bavière/ d Bvr  )

mais aussi aux adjectifs :

présent/e  : prst 

joli / jolie   / jl

On pourra quand même garder le "e" dans les formes nominales non fléchies, les adverbes, les verbes :

est, sont, gentiment, marcher

Bien sûr il y aura des homonymes , puisque "l" sera à la fois "la" et "iel" : 

"la meuf est jalouse" / l mf est  jls 

"il est jaloux le mec" / l mc l est jl

On notera que cela évitera le scandale de ces termes au féminin désignant souvent des mâles : 

sentinelle / stnll 

ordonnance / rdnc 

personne / prsnn

    J'admets que cela ne satisfera pas les plus rdcls: si l'on doit écrire "femmage" pour honorer n prsnn de sexe fmnn, et "hommage" pour honorer n prsnn de sexe mscln, ma réforme ne sera d'aucune aide. Pour assurer l'épicénie, il vaudrait mieux simplement garder "hommage" et l'écrire:

hmmg 

"mes hommages, Madame" / mes hmmgs, Mdm

Il ne reste plus qu'à mettre en pratique.


l'anglais a résolu le problème



 


 

dimanche 1 mai 2022

La "dégradation morale" de Benda

 

Benda et des intellectuels hongrois( Sandor Rideg à gauche) Budapest 1949     
 

 Mark Lilla,  dans un article de 2021  repris comme introduction à la nouvelle traduction de La Trahison des clercs en anglais ( Eris 2021), voit un paradoxe, voire une contradiction dans le fait que Benda prêche pour les clercs  (qu'il traduit en anglais par "the scribes"*) la soumission aux valeurs éternelles et qu'il prêche aussi pour leur engagement dans la cité .Dans un article du 16 mars 2022 de la revue en ligne American purpose, Gustav Jönsson  loue Benda d'avoir vu la montée du fascisme, mais  note le même paradoxe.

       Benda s'est expliqué à de nombreuses reprises sur ce soi-disant paradoxe (par exemple "Le clerc et le politique" (1935), in Précision (1937)) et j'ai exposé à de nombreuses reprises sa position, dans les Lois de l'esprit, y compris sur ce blog: sa thèse n'est pas que le clerc ne doit pas entrer sur l'arène politique, mais que s'il le fait, il doit le faire pour défendre la vérité et les valeurs éternelles. Jean- François Revel l'a fort bien dit:  "« Benda, dans La Trahison des clercs, ne condamne pas l’engagement pour les intellectuels ; ce qu’il demande c’est qu’eux surtout, et eux avant tout subordonnent l’engagement à la vérité, et non la vérité à l’engagement ».  Et Benda admettait bien qu'il faut s'engager politiquement. Ce qu'il reprochait à ses adversaires était de la faire au nom des valeurs pratiques et sociales. Quant à lui il soutient qu'il est "dans son rôle de clerc en défendant une mystique, non en faisant de la politique".

    La contradiction que les critiques voyaient chez Benda était d'autant plus visible selon eux qu'il a avait pris nettement parti pour Dreyfus dans les années 1900, pour l'Union sacrée pendant la première guerre, puis contre l'Action française et le fascisme dans les années 20 et 30, pour l'engagement dans la guerre d'Espagne, puis pour les communistes après 1945. Mais ces engagements n'auraient ils pas dû au contraire les inciter à lire ses mises au point , notamment dans La fin de l'éternel (1929)?

       L'autre reproche que fait Lilla à Benda est de glisser du rôle de serviteur de la raison à celui de  prophète.  : 

 "There is a subtle shift in Treason from the image of the intellectual as truth’s servant, to one of the intellectual as truth’s representative—which is a prophetic, not a clerical, calling."

Thibaudet avait fait le même reproche dans son compte rendu de la Trahison dans la NRF (1928) suggérant le côté hébreu et Isaïe de Benda, pour tout dire son sémitisme. Il est arrivé à Benda d'avoir ce ton prophétique, mais je ne crois pas qu'il ait jamais confondu le service de la raison et le respect des lois de l'esprit avec un rôle de représentant de la raison qui ferait de lui le seul dépositaire de la vérité. Une mystique n'est pas une prophétie.

Quant au sémitisme, Benda répond à Thibaudet dans Précision :

"Pour la valeur du facteur juif, précisons. Peuple sans terre, qui se réfugie dans l'Esprit, dit non sans admiration mon exégète. Peuple sans terre, répondrai-je, mais non sans comptes de banque et, en tant que tel, peu bloqué dans l'Esprit. Ajoutez sa croyance à une vérité juive ; sa volonté, il y a quarante ans, que Dreyfus fût innocent avant toute preuve, par cela seul qu'il était juif ; sa prétention depuis quelque temps de ranimer l'âme spécifiquement juive, l'âme de la « race élue ». Ma religion de l'esprit pur a autant consisté à me nourrir d'un certain sémitisme qu'à me libérer d'un autre, à rompre, comme mon maître, avec la synagogue."

     Au contraire, ce qu'il reproche à ses compatriotes clercs , c'est de se prendre pour des apôtres et des sauveurs (voir Précision, cité ici même dans un billet antérieur).

 Mark Lilla soutient que la fonction du clerc selon Benda est de  "speak truth to power" , parler vérité au pouvoir .

"From this perspective, The Treason of the Intellectuals is the quintessential act of a responsible scribe. Benda has simply taken his whip and cleared the money changers and whores out of the Temple so that the true prophets can be heard. The real heroes of Treason, it turns out, are not the monkish types in their cells with their manuscripts and compasses and telescopes. They are not St. Thomas, Da Vinci, Galileo, or Descartes. They are rather those who at a critical historical juncture delivered The Protest, the resounding NO! that still lives in our memories. What Benda most admires in Montaigne, for example, is not his skepticism or his style, it is his denunciation of witch burning and exposure of colonialism’s absurdity; in Montesquieu, it is the condemnation of slavery; in Voltaire, the campaign to exonerate Protestant Jean Calas of his son’s murder; in Zola, the j’accuse that would eventually free Captain Dreyfus. These were all courageous acts of intellectual protest and they eventually had real effects. Witches are no longer burned, slavery is no longer legal, and Dreyfus was eventually freed. In an earlier work, Benda wrote that reason is revolutionary in its essence precisely because it is universal, while the social order is always self-interested, partial. These examples show why truth is a friend of justice. One does not speak truth to power simply to clear one’s conscience or keep the relevant ministries informed. One does it in a counter-exercise of power, however feeble and doomed it might be. And sometimes it has revolutionary effects."

 But all power, even the power of truth, comes with temporal responsibilities, in particular the responsibility to consider the potential consequences of acting on that truth. There are cases in which ending a moral abomination incurs negligible moral costs. Those are rare. The normal moral case in political life is more like the Yugoslav Wars of the 1990s, a nightmare of clashing interests and reciprocal abominations. On the subject of prophetic responsibility in such situations, Benda has nothing to say.

Once we have spoken truth to power, once it is exposed and thwarted, power does not wither and die. There is a struggle over recapturing it, after which new victors have power over the newly vanquished, and new abuses become possible. What then is Benda’s morally clairvoyant scribe to do? To be consistent, he must commit himself to shouting the same NO! at the same volume every time a violation occurs, without acting himself. That is an absurd position to be in (though one can imagine a good Bergman film on such a Swedish parson). Instead, what most often happens is that at a certain historical moment—and to some minds, it is always that moment—the injustices on one side will seem so great that fighting to vanquish them will seem to the prophet the only imperative, no matter what may follow.

This is psychologically understandable: A moral crime in the hand will always seem weightier than two in the bush. But it is one thing to bow to necessity and accept that a certain abuse of power may be necessary to prevent a larger one. It is quite another to then convince oneself, as so many intellectuals in modern history have, that the monstrousness of the status quo transubstantiates any lie against it into a truth, and any crime against it into a moral act. It implies that, seen from the right perspective, those who tell such lies and perpetrate such crimes have the cleanest hands of all. At this point the definition of speaking truth to power becomes exoneration.

This way of thinking is, of course, a moral and political trap, and Julien Benda fell into it in the 1930s, never to emerge. Ten years after his tribute in Treason to dispassionate intellectual devotion to the true, the good, and the beautiful, he could write this about the atrocities committed by communists during the Spanish Civil War:

I say that the scribe must now take sides. He must choose the side which, if it threatens liberty, at least threatens it in order to give bread to all men, and not for the benefit of wealthy exploiters. He will choose the side which, if it must kill, will kill the oppressors and not the oppressed. The clerc must take sides with this group of violent men, since he has only the choice between their triumph or that of the others. He will give them [the communists] his signature. Perhaps his life. But he will retain the right to judge them. He will keep his critical spirit.

Benda never fully recovered his." 

    L'objection de Lilla est que le rôle que Benda donne au clerc de dénonciateur permanent des violations de la vérité et de la justice est absurde, s'il s'agit de se lever à chaque violation. On moqua souvent, à la grande époque des intellectuels, les signataires de manifestes qui, chaque fois qu'on leur demandait de servir telle ou telle cause, se précipitaient. Benda n'échappa pas à cette tendance. Mais il est bien évident que le rôle est absurde, s'il est supposé être celui d'une vigie permanente. Et Benda ne l'adopta pas. Comme le note Lilla suffit que, dans certains cas particuliers exemplaires (Calas pour Voltaire, Dreyfus pour Zola) le clerc s'insurge. Mais le problème est de savoir quand les cas sont exemplaires. 

    Le second reproche de Lilla est que Benda ne se soucie pas des conséquences, autrement dit qu'il oublie que la vérité se dit et se défend avec des conséquences pratiques. Une autre manière de dire cela est qu'il adopte sustématiquement l'éthique de conviction au détriment de l'éthique de responsabilité.

     Benda en effet a tendance à se laver les mains des conséquences. "Le clerc, nous dit il , rentre dans sa cellule" quand le politique prend la main (voir Appositions). Ce dernier est dans son ordre, celui des conséquences, alors que le clerc est dans le sien. Il semble donc opérer un divorce complet de l'idéal et de la pratique, et ignorer que l'idéal lui même doit se frotter à la pratique.

    Mais Benda ne fait pas ce divorce. Sans quoi pourquoi aurait il prôné le patriotisme en 14, adopté le statut de témoin contre l'Action française dans les années 30, pourquoi aurait il visité des camps de prisonniers espagnols en 1936, pourquoi aurait il dénoncé en 1938 le souhait  de la bourgeoisie française  de la victoire du nazisme par peur du communisme ("Les démocraties européennes devant l'Allemagne", NRF)? Il ne pouvait pas ignorer totalement la pratique. Dans "le clerc et le politique", Benda écrit :

" J'ai dit que l'idéal de gauche était recevable pour le clerc ; je n'ai pas dit l'idéal d'extrême-gauche ; pour parler plus précisément je n'ai pas dit, l'idéal communiste. Celui-ci, en effet, très semblable en cela à l'idéal de droite, admet, en théorie, de subordonner la justice et la vérité à l'intérêt social (voir les déclarations « pragmatistes » de maint marxiste), la seule différence étant que l'intérêt social est ici l'intérêt de la classe ouvrière et non plus de la classe bourgeoise. J'ai toutefois signé certains manifestes en compagnie de communistes. Mais c'est que, cette fois, les communistes défendaient l'idéal de la justice exactement comme il est compris par la Déclaration des Droits de l'Homme (par exemple dans l'affaire Dreyfus et dans l'affaire éthiopienne). Et cela ne voulait nullement dire que j'acceptais pour cela l'idéal communiste, encore que certains s'efforcent de le faire croire. NE CONFONDONS PAS L'IDÉAL DE GAUCHE ET LA PRATIQUE DE GAUCHE"

    Le problème du clerc Benda n'est donc pas celui de l'ignorance des conséquences et du mépris de la pratique. C'est celui du choix de la pratique, et du type d'intervention qui peut avoir des effets. Et là on n'est plus dans les fins, mais dans la calcul des moyens, même si les moyens ne sont pas soumis aux valeurs temporelles. Benda, mais plus tard aussi  bien des intellectuels qui dans les années 30 et 40 n'avaient pris aucune position politique (comme Sartre et Beauvoir) et se découvrirent soudain une vocation d'engagés dans les années d'après-guerre, considérait qu'il suffisait de prendre un parti ( en l'occurence le communiste) et de s'y tenir. Son problème, comme celui de tous les communistes, est celui de la ligne de parti, qui oblige à fermer les yeux sur les conséquences non pas en tant que telles, mais en tant qu'elles sont décidées par le parti. Benda n'a jamais adhéré au PC, ni avant ni après guerre. Mais  il accepté les diktats du parti. C'est pourquoi il admet que les communistes sont des "violents" le prix à payer vaut la poursuite de l'idéal que ceux ci représentent. C'est là que Benda, mais pas seulement lui, manqua de lucidité, car il ignora volontairement toutes les manipulations. Il avait pourtant bien vu les procès de Moscou, les exactions des staliniens. Mais il lui a manqué l'intelligence de la situation politique elle-même. 

    S l'on suit sa biographie à partir des années 30, on voit aussi pourquoi il s'est progressivement rapproché des communistes, bien qu'il n'ait cessé de dire qu'il refusait le marxisme comme doctrine (en particulier en littérature, (voir son intervention au Congrès des écrivains de 1935, dont j'ai aussi parlé ici ). D'abord il est victime d'une campagne antisémite intense de la part de l'Action française et des écrivains réactionnaires de la NRF, cloué vingt fois au pilori, y compris par Céline. Ensuite il se fait mettre sur la touche, en 1940, par Gide et la direction de la NRF, au nom de la real politik : une fois les Allemands à Paris, il ne fallait pas que Gallimard échappe au contrôle des nazis ("Il n'y a, disait Abbetz, que deux pouvoirs en France, le politique et Gallimard"), et tout ce qui était juif devait en être banni. Il vit la guerre en reclus, et n'échappe à la déportation en 1944 que grâce aux communistes. Prenant parti contre l'absolution des écrivains collaborateurs ("le droit à l'erreur") et faisant de la surenchère pendant l'Epuration, il s'oppose à son ancien mentor, Paulhan. Cela le coupe de la NRF, où il espérait retrouver, après guerre, son ancien sacerdoce. Tout cela le poussait, s'il voulait survivre intellectuellement, dans  les bras du Parti. Aragon, Wurmser, Roy (converti à temps au communisme) et les Kanapa l'accueillirent en 1947. La préface de la seconde édition de la Trahison date de cette époque. Mais il n'adhère pas pour autant au Parti, devenant compagnon de route. C'est là qu'intervient ce que  Lilla appelle sa prévarication. Etant devenu vieux, on le mit au moulin.Gustav Jönsson renchérit à propos de l'épisode du procès Rajk en 1949, dans lequel Benda perdit définitivement sa réputation. : 

"The ne plus ultra of Benda’s moral degradation came in 1949, when he justified Mátyás Rákosi’s show trials, including the execution of foreign minister László Rajk on false charges of being a “Titoist spy.” This episode, now seldom remembered, once carried great moral weight in European history. The show trial of Rajk shook the European Left to such a degree that Daniel Bell listed it as one of the most significant “Kronstadt moments” along with the Moscow Trials, the Nazi-Soviet Pact, and Hungary 1956. Benda visited Budapest shortly after Rajk’s execution. He stayed at Hotel Bristol, where he met Hungarian writer György Faludy. Faludy recalled how impressed Benda had been when he toured the city’s manufacturing plants—he came away completely fooled, never suspecting that the workers were in reality employed by the security services. “You see,” he asked Faludy, “when will the French worker be able to have such a car and income?” When he returned to France he thanked Rákosi for inviting him to Budapest and compared his own defense of Stalin with Zola’s defence of Dreyfus."

On se croirait dans Tintin aux pays des Soviets,  sauf que Benda ne voit pas le décor de carton pâte.

Jönsson poursuit: "Benda’s hypocrisy, however, takes nothing away from Treason’s core premises. Indeed, his failure to heed its warnings only makes them more forceful—because it shows that even those, perhaps especially those, who feel most sure of themselves risk betraying their own high principles in spasms of righteous fury."

      Tony Judt a exprimé des jugements du même genre et j'ai examiné ici déjà ses arguments

  Benda était-il un hypocrite ? Relisons d'abord, ce que ne font ni Lilla ni Jönsson l'article du 13 octobre 1949 des Lettres françaises dans lequel Benda souscrit à la condamnation de Rajk

 

    Benda ici reprend ses arguments de 1935 sur le clerc et le politique et le rôle de la mystique. Il soutenait aussi, au temps du 6 février 34, que les démocraties ne doivent pas adopter un point de vue éthéré ( celui précisément qu'on lui reprochait de prêcher avec sa conception du clerc), mais être capables de se défendre par la force contre le fascisme. 

     Ce qui a changé en 1949, quand Benda est devenu un thuriféraire du Parti, c'est qu'il était prêt à accepter tous ses mots d'ordre, ce qu'il ne faisait pas avant guerre. Son autre erreur est d'avoir été complètement incapable d'apprécier la situation. Si "truth must speak to power", la vérité doit savoir à quel pouvoir elle a affaire. Benda ne s'est cependant pas lancé tête baissée dans la justification du procès Rajk. Il est allé en Hongrie en 1949, a rencontré des intellectuels. Certains comme Georgy  Faludy et François Fetjö l'avertirent (cf Les lois de l'esprit, p.277, sauf que je situe ce voyage en 48) , mais il fit la sourde oreille. Il s'aveugla complètement, et sans doute volontairement.  Il glisse du traître titiste au traître esterazhyen qu'il avait connu dans sa jeunesse (ces Magyars, tous traîtres!).

Tony Judt met son âge (84 ans) au compte de ce ratage. Mais il faut noter qu'il ne fut pas le seul, même si l'on ne peut pas user de l'argument du solatium miseris socios habuisse malorum. A la même époque les Temps modernes avaient une ligne assez voisine, qui conduisit Merleau, puis Aron, puis Lefort, à se séparer d'eux. Sartre en 1952 adoptait, mais sur des bases très différentes de celles de Benda, le même point de vue que lui quant aux communistes, dans Les communistes et la paix. Il rompra en 1956. Il y a de bonnes analyses de l'époque. 

Benda se rendit-il compte de son erreur lamentable? A partir de 1950, il n'écrit plus, peut-être parce qu'il se sent floué par l'épisode Rajk? Malade, il se marie sur le tard , après avoir célébré les Vieux garçons (1926). Un autre de ses renoncements? Quoi qu'il en soit, il cesse d'écrire, et ne fait plus que quelques émissions de radio. Il n'aura pas, étant mort en 56, l'occasion de voir les chars russes entrer dans Budapest. Aurait il approuvé l'invasion soviétique, qui marque le point de bascule des ralliements des intellectuels au parti communiste? Ce n'est pas sûr.

Le problème de Benda fut donc de ne pas avoir vu la vérité dans la pratique, non pas d'avoir manqué à son idéal. Je ne suis pas, pour ma part complètement sûr, si j'avais été un jeune adulte en  1945, de ne pas avoir suivi la même voie, et de ne pas avoir désiré adhérer au parti communiste, et peut être de l'avoir fait, même si je n'aurais sans doute pas fait le voyage à Budapest pour clouer Rajk au poteau. Peut être cet aveu me vaudra-t-il un jugement de "dégradation morale" après coup.

     

    


 


*  La traduction n'est pas mauvaise, et le terme fut utilisé par Régis Debray dans son livre Le scribe (1977). Mais cela fait perdre le sens de religieux séculier que Benda visait. Il m'arrive de traduire clerks, mais cela désigne l'employé dans un magasin, mais je pense que cleric est le terme anglais approprié.